Archivio | luglio, 2016

L’Antologia Tuderte: quanno ‘l calamajo è el còre (Sonia Montegiove)

17 Lug

Antologia Tuderte

Sonia Montegiove

SONIA MONTEGIOVE

Tratto da TamTam settembre 2002

LO SCALPELLINO

Pontecuti scalpellini, Pian di San Martino muratori, Cecanibbi cacciatori. Così recita un antico detto paesano ripetutoci con orgoglio da Novellino Mariani, 83 anni ben portati, quasi per giustificare la sua scelta di fare lo scalpellino per una vita intera. L’elezione della frazione tuderte di Pontecuti a patria di questo antico mestiere, oggi in via d’estinzione, deriva dalla presenza in paese negli anni Cinquanta di una trentina di artisti della pietra, depositari di una tradizione tramandata da padre in figlio. “Fino a pochi anni fa – ci confida Mariani con un pizzico di rammarico – eravamo rimasti io e Giovanni Frustagatti a fare da portabandiera. Poi lui mi ha lasciato solo col dispiacere di non poter insegnare a nessuno questa attività”. La voce di Novellino sembra incrinarsi al pensiero di non lasciare ad un giovane una così preziosa eredità di esperienza. “Oggi nessuno vuole più fare lo scalpellino – continua – e non capisco il perché”. Gli occhi di Novellino raccontano le grandi emozioni provate nel modellare un materiale deforme in un pezzo d’arte. Emozioni che da adolescente lo spinsero verso la scelta su cosa fare da grande: un mestiere diverso da quello del padre coltivatore ma che proseguiva la tradizione di famiglia ben rappresentata dal nonno e dagli zii. In particolare, lo zio acquisito Liodante Urbani era uno dei più noti “taglia-pietre” del paese, in quanto aveva una ventina di scalpellini sotto di sé e fece da maestro per molti, nipote compreso.

Era il 1946, l’anno in cui Mariani, tornato da otto anni di guerra, comincia ad imparare il mestiere. Degli episodi bellici rimane solo il ricordo e la riconoscenza che Novellino ancora conserva per la persona che lo consigliò di arruolarsi come agente forestale. “Certo – si rammarica – ho passato la giovinezza in guerra, a Rodi, ma in compenso sono stato più fortunato di altri, pur avendo vissuto l’umiliazione della prigionia”: Ci vogliono quattro anni di “scuola” dal cugino Giuseppe e di successive prove e perfezionamenti prima che Novellino inizi a lavorare sul “serio”. Comincia così a realizzare opere imporranti, delle quali va ancora fiero: la porta in travertino della farmacia e del bar in piazza del Popolo e gli scalini di collegamento fra Duomo di Todi e Cripta, oltre ai portali e alle cornici costruite per la chiesa del Gesù a Perugia. “Insieme ad altri colleghi – racconta Novellino – preparammo pure la nicchia per Fra’ Jacopone, che collocammo di notte affinché per la mattina successiva tutto fosse al suo posto”. Oltre a questi lavori, Mariani esegue in quel periodo una quantità notevole di commissioni per architravi e stipiti e per le cappelle funerarie, una ventina delle quali sono presenti nel cimitero tuderte. “Il ciglio del cimitero nuovo – dice – è tutto di travertino estratto a Titignano, fatto di lastre che ricavammo a fatica da un antico masso lungo 11 metri, largo 3 e alto 7”.

Il lavoro si svolgeva con pochi umili attrezzi, che in alcuni casi solo il fabbro sa riparare e temperare nel modo giusto: martello, bocciarde, scalpelli, punte e scapezzino, oltre a riga, squadra e lapis per fare tagli precisi. Lo scalpellino dice di aver avuto anche 120 punte, necessarie quando lavorava la pietra serena che, per la sua consistenza, ne metteva fuori uso una ogni mezz’ora. “Ho lavorato soprattutto il travertino di Titignano – afferma Novellino – la pietra calcarea delle cave di Camerata ed Izzalini e raramente ho utilizzato la pietra serena presa al Fossaccio, tra Canonica e Quadro. La pietra grigia, invece, temperata a fuoco lento con legni leggeri come quello di fico, era richiesta per i forni, come quelli delle fornaci Toppetti”. I massi, portati sul posto, venivano squadrati con lo “scavazzino” e, nel caso di pietre da mettere in bella vista, lavorati con la “buciarda”, un tipo di martello la cui superficie è modellata a reticolo per lasciare dei piccoli punti. La giornata dello scalpellino iniziava all’alba per terminare anche a notte inoltrata. “Andavamo sul posto alcuni giorni prima dei muratori – racconta Mariani – per prenderci un po’ di vantaggio e battevamo sugli scalpelli per preparare la pietra che veniva subito murata”.

Oltre alla soddisfazione che ne traeva, ancora palpabile nelle parole di Novellino, il lavoro veniva pagato il doppio rispetto a quello di un operaio. Negli anni Cinquanta, ad esempio, lo stipite di una porta per cui si impiegavano tre giorni veniva compensato con 3.000 lire al metro lineare, mentre la paga a giornata era di 1.800 lire. “Tutti i lavori che ho fatto mi hanno gratificato – afferma contento lo scalpellino – e l’unico episodio che ricordo con dispiacere riguarda un’americana che prese a martellate una colonna perché non le piaceva”. Mentre lo racconta, Novellino chiude la mano a pugno, al ricordo delle nottate passate a battere sullo scalpello per realizzare con passione un’opera non apprezzata. Nel salutarci ci invita a passare in piazza per ammirare i “suoi figli” e ci fa pensare che la frase di Carlo Levi “le parole sono pietre” si potrebbe leggere anche al contrario: le pietre sono parole. Quindi anche gli scalpellini possono essere considerati poeti.

Sonia Montegiove

 

Novellino MarianiNOVELLINO MARIANI

 

Da TamTam giugno 2002

 EL CALZOLAIO

Il detto popolare che vorrebbe il calzolaio scalzo non si addice certo al tuderte Rinaldo Zoppini, abile conoscitore di un mestiere ereditato dal padre, che mostra orgoglioso le scarpe cucite con le proprie mani e racconta di quelle preparate per tutti i componenti della famiglia.
In mezzo a tomaie, suole, martellina e lesina Rinaldo c’è cresciuto, visto che suo papà, dopo aver frequentato la scuola artigiana del Crispolti, iniziò il lavoro del calzolaio giovanissimo e ha continuato a farlo fino oltre gli ottant’anni.
Neanche la guerra mondiale ha fermato il martello di Zoppini che batteva sulle suole. “Durante gli anni Quaranta – racconta Rinaldo – mancava il materiale ed eravamo costretti a conciare la pelle da soli o a lavorare con cuoio e chiodi recuperati da roba vecchia”.
Nei suoi occhi compare un velo di commozione al ricordo dei tempi in cui da bambino passava giornate intere a dar colpi sui chiodi vecchi per raddrizzarli. “Ancora conservo il ferro da stiro della povera nonna – ci dice tirando fuori un pezzo arrugginito da una scatola – sul quale battevo i chiodi giornate intere, tanto che di tempo per giocare non ne rimaneva”.
Unico dei fratelli a continuare il mestiere del padre, Zoppini inizia la sua carriera nel calzaturificio Roversi, dove resta per due anni a costruire gli scarponi militari per gli alpini. “Mi ricordo – sottolinea – quanto fosse faticoso cucirli a 8-10 fili bucando quel fondo spesso con la lesina… e il tutto per una miseria!”.
Sul lavoro incontra poi un ternano che lo convince ad arruolarsi nei vigili del fuoco di Livorno. “Da pompiere – dice Rinaldo – ho comunque continuato a riparare e cucire scarpe per circa tre anni, assolvendo così l’obbligo militare”. Nel 1947 torna nella sua Todi, dove inizia l’attività in una bottega vicina alla piazza del Mercataccio, luogo nel quale passa ancora una parte del suo tempo, un po’ ricordando e un po’ facendo qualche riparazione.
“Nel dopoguerra il lavoro non è mancato – racconta Zoppini – perché le famiglie erano quasi del tutto scalze. Al tempo lavoravo con mio padre, con il quale abbiamo girato tute le campagne intorno a Todi”. Sì, perché le famiglie contadine passavano a prendere i due calzolai con la bega, caricavano la loro macchina cucitrice (la stessa che Renato usa ancora oggi) e li ospitavano per il tempo necessario a realizzare le scarpe della famiglia.
“Ci pagavano a giornata – prosegue l’artigiano – e ci fornivano vitto e alloggio ma noi lavoravamo pure di notte alla luce dell’acetilene”. All’epoca per un paio di scarpe si ricevevano 80 lire che erano il frutto di almeno due giorni di lavoro.
“Attrezzi particolari non esistevano – ricorda Rinaldo – e le uniche cose a disposizione erano martello e chiodi per inchiodare, lesina e spago per cucire, raspa e vetro per rifinire”.
Questo all’inizio degli anni Cinquanta, allorché padre e figlio comprano una cucitrice che viene utilizzata ancora adesso. Mentre parla, il calzolaio si dirige verso un telo rosso che solleva per mostrare fiero la “Singer” tirata a lucido nonostante l’età. Solo dopo diversi anni si è comprato il banco di finissaggio, necessario per rifinire e lucidare il lavoro, ma conserva ancora gli attrezzi del papà che entrano tutti in una scatola di cartone.
D’altra parte, finché non è stata inventata la colla, del cui profumo è impregnata la vecchia bottega, tutto veniva cucito con lo spago. E anche se è passato mezzo secolo, lo scarpaio tuderte costruisce calzature sempre allo stesso modo, disegnando la figura del piede sulla carta, misurando la circonferenza del collo e la sua lunghezza, preparando a mano fondo e tomaia. “Ci impiego circa dodici ore – spiega – anche se devo dire che i tacchi da un po’ di tempo li compro già pronti, mentre una volta li facevo io di cuoio”.
Il lavoro di maggior soddisfazione? “Delle oltre duemila scarpe costruite in vita mia – ci risponde – sicuramente i pezzi più belli sono stati gli stivali da cavallo”. Tranne qualche rara collaborazione da parte di vecchi amici ormai scomparsi, Zoppini non ha potuto contare sull’aiuto di altri. “Non ho avuto apprendisti – conferma – anche perchè questo è un mestiere che ti fa lavorare tanto e guadagnare poco rispetto ad altri artigiani: se avessi avuto un figlio maschio non glielo avrei consigliato di certo”.
Mentre parliamo passa un signore anziano che apre la porta della bottega ed esclama: “Zoppì, quando me le fai le scarpe?”. Rinaldo sorride, pensa alle intere generazioni tuderti che hanno calzato il frutto del suo lavoro e che lo vorrebbero “agli arresti domiciliari” ancora dentro la bottega a battere e cucire, e commenta felice: “Lui è un amico, porta solo le scarpe che faccio io”.
Sonia Montegiove

Rnaldo Zoppini

LA MESTAJA DE SAN FELIPPO

5 Lug

San Filippo

 

 

LA MESTAJA DE SAN FELIPPO
Filippo Benizi nacque a Firenze nel 1233. Giovanissimo, all’età di quattordici anni, era già in quel di Parigi a studiare filosofia. Visse poi a Padova dove, appena diciottenne conseguì la laurea di dottore in medicina. A ventuno anni entrò in convento. Nel 1285 scelse Todi come suo luogo di ritiro. I tuderti lo accolsero con tantissimo entusiasmo ma egli morì dopo breve tempo. Il popolo lo pianse e gli dedicò, nel futuro, grande devozione. Narra la leggenda che la città di Firenze tentò più volte di riavere il corpo di Filippo ricevendo sempre, da parte dei fedeli di Todi, un netto rifiuto. Allora un gruppo di fiorentini, nottetempo, trafugò la salma del Santo. Se ne accorsero alcuni bambini che lanciarono l’allarme e le campane di tutti i rioni furono fatte suonare. I tuderti li inseguirono, raggiungendoli a Ponterio, là dove nel 1617 fu eretta un’edicola, a memoria della vicenda, chiamata Maestà delle Forche. I fiorentini furono duramente malmenati e rischiarono il linciaggio. Riavute le reliquie del santo, i fedeli le riportarono nella chiesa a lui dedicata e che si trova nei pressi di Porta Romana. Nel 1933, a ricordo del tentativo di furto dei fiorentini, fu ristrutturata l’edicola e arricchita da un affresco del concittadino Benedetto Cascianelli. Fa nascere perplessità che appena un anno dopo, l’opera del Cascianelli sia stata sostituita da una raffigurazione in maiolica. Non si conoscono le motivazioni di tale decisione. L’immagine in maiolica è certamente bella ed è opera giovanile del pittore derutese Pimpinelli Teobaldo, il quale è stato allievo del pittore russo David Zipirovic che soggiornò a Deruta dal 1923 al 1927 ma a noi tuderti sarebbe piaciuta molto di più l’opera pittorica del tuderte Benedetto.
Voglio ricordare che il 23 agosto si festeggia il Santo. Una festa e una data che sono nel cuore dei tuderti.