SONIA MONTEGIOVE
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Tratto da TamTam settembre 2002
LO SCALPELLINO
Pontecuti scalpellini, Pian di San Martino muratori, Cecanibbi cacciatori. Così recita un antico detto paesano ripetutoci con orgoglio da Novellino Mariani, 83 anni ben portati, quasi per giustificare la sua scelta di fare lo scalpellino per una vita intera. L’elezione della frazione tuderte di Pontecuti a patria di questo antico mestiere, oggi in via d’estinzione, deriva dalla presenza in paese negli anni Cinquanta di una trentina di artisti della pietra, depositari di una tradizione tramandata da padre in figlio. “Fino a pochi anni fa – ci confida Mariani con un pizzico di rammarico – eravamo rimasti io e Giovanni Frustagatti a fare da portabandiera. Poi lui mi ha lasciato solo col dispiacere di non poter insegnare a nessuno questa attività”. La voce di Novellino sembra incrinarsi al pensiero di non lasciare ad un giovane una così preziosa eredità di esperienza. “Oggi nessuno vuole più fare lo scalpellino – continua – e non capisco il perché”. Gli occhi di Novellino raccontano le grandi emozioni provate nel modellare un materiale deforme in un pezzo d’arte. Emozioni che da adolescente lo spinsero verso la scelta su cosa fare da grande: un mestiere diverso da quello del padre coltivatore ma che proseguiva la tradizione di famiglia ben rappresentata dal nonno e dagli zii. In particolare, lo zio acquisito Liodante Urbani era uno dei più noti “taglia-pietre” del paese, in quanto aveva una ventina di scalpellini sotto di sé e fece da maestro per molti, nipote compreso.
Era il 1946, l’anno in cui Mariani, tornato da otto anni di guerra, comincia ad imparare il mestiere. Degli episodi bellici rimane solo il ricordo e la riconoscenza che Novellino ancora conserva per la persona che lo consigliò di arruolarsi come agente forestale. “Certo – si rammarica – ho passato la giovinezza in guerra, a Rodi, ma in compenso sono stato più fortunato di altri, pur avendo vissuto l’umiliazione della prigionia”: Ci vogliono quattro anni di “scuola” dal cugino Giuseppe e di successive prove e perfezionamenti prima che Novellino inizi a lavorare sul “serio”. Comincia così a realizzare opere imporranti, delle quali va ancora fiero: la porta in travertino della farmacia e del bar in piazza del Popolo e gli scalini di collegamento fra Duomo di Todi e Cripta, oltre ai portali e alle cornici costruite per la chiesa del Gesù a Perugia. “Insieme ad altri colleghi – racconta Novellino – preparammo pure la nicchia per Fra’ Jacopone, che collocammo di notte affinché per la mattina successiva tutto fosse al suo posto”. Oltre a questi lavori, Mariani esegue in quel periodo una quantità notevole di commissioni per architravi e stipiti e per le cappelle funerarie, una ventina delle quali sono presenti nel cimitero tuderte. “Il ciglio del cimitero nuovo – dice – è tutto di travertino estratto a Titignano, fatto di lastre che ricavammo a fatica da un antico masso lungo 11 metri, largo 3 e alto 7”.
Il lavoro si svolgeva con pochi umili attrezzi, che in alcuni casi solo il fabbro sa riparare e temperare nel modo giusto: martello, bocciarde, scalpelli, punte e scapezzino, oltre a riga, squadra e lapis per fare tagli precisi. Lo scalpellino dice di aver avuto anche 120 punte, necessarie quando lavorava la pietra serena che, per la sua consistenza, ne metteva fuori uso una ogni mezz’ora. “Ho lavorato soprattutto il travertino di Titignano – afferma Novellino – la pietra calcarea delle cave di Camerata ed Izzalini e raramente ho utilizzato la pietra serena presa al Fossaccio, tra Canonica e Quadro. La pietra grigia, invece, temperata a fuoco lento con legni leggeri come quello di fico, era richiesta per i forni, come quelli delle fornaci Toppetti”. I massi, portati sul posto, venivano squadrati con lo “scavazzino” e, nel caso di pietre da mettere in bella vista, lavorati con la “buciarda”, un tipo di martello la cui superficie è modellata a reticolo per lasciare dei piccoli punti. La giornata dello scalpellino iniziava all’alba per terminare anche a notte inoltrata. “Andavamo sul posto alcuni giorni prima dei muratori – racconta Mariani – per prenderci un po’ di vantaggio e battevamo sugli scalpelli per preparare la pietra che veniva subito murata”.
Oltre alla soddisfazione che ne traeva, ancora palpabile nelle parole di Novellino, il lavoro veniva pagato il doppio rispetto a quello di un operaio. Negli anni Cinquanta, ad esempio, lo stipite di una porta per cui si impiegavano tre giorni veniva compensato con 3.000 lire al metro lineare, mentre la paga a giornata era di 1.800 lire. “Tutti i lavori che ho fatto mi hanno gratificato – afferma contento lo scalpellino – e l’unico episodio che ricordo con dispiacere riguarda un’americana che prese a martellate una colonna perché non le piaceva”. Mentre lo racconta, Novellino chiude la mano a pugno, al ricordo delle nottate passate a battere sullo scalpello per realizzare con passione un’opera non apprezzata. Nel salutarci ci invita a passare in piazza per ammirare i “suoi figli” e ci fa pensare che la frase di Carlo Levi “le parole sono pietre” si potrebbe leggere anche al contrario: le pietre sono parole. Quindi anche gli scalpellini possono essere considerati poeti.
Sonia Montegiove
NOVELLINO MARIANI