Archivio | luglio, 2015

L’Antologia Tuderte: quanno ‘l calamajo è el còre (Elisabetta Carbonari)

31 Lug

Antologia Tuderte

Scrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.

 

Listener[1]

ELISABETTA CARBONARI

 

LA PIAZZA, IL CENTRO DELLA VITA (di Elisabetta Carbonari)

Passavo ore ed ore ad ammirarti dietro i vetri della mia finestra, amica cara della mia giovinezza. Con la tua semplicità soave, i tuoi silenzi assordanti e la bellezza dei tuoi palazzi: le arcate, le trifore, le torri ed i tuoi merli lassù in cima, luoghi di lotte e sfide, leggende, arte e cultura…fantasie di storie lontane. Sei tu, la Piazza di Todi, ciò che più mi è caro. Sei stata una madre benevola per noi bambini delle elementari, che all’uscita di scuola, ancora con le cartelle in mano, correvamo verso te per perderci poi verso le nostre case. Ed i tuoi vicoli e voltoni dai quali correndo uscivamo ed entravamo per giocare a nascondino. Le corse su per le scale della cattedrale fino in cima per poi girarci a guardarti di lassù, senza fiato ma felici. E poi dietro ai tanti piccioni che a mezzogiorno ti giravano intorno come a farti festa . Eri affollata e piena di Tuderti quando, la domenica, terminava la Santa Messa, era un piacere vedere tutti scendere dalla bella scalinata per godere insieme di quelle ore liete. Eri gioiosa e colorata durante i giorni di fiera. Che spettacolo vederti dall’alto con tutte quelle tende colorate, con i palloncini che ogni tanto volavano nel cielo. Ancora più bella eri di notte silente ed austera, composta ed immobile, un luogo sicuro dove ritrovare me stessa… luogo di fantasia e realtà, di favola e sogno. Tu eri luogo di vita, il centro della mia vita.

Elisabetta Carbonari

 

Li Giardinetti (Giardini Oberdan) nel tempo

28 Lug

1912 Giardini Oberdan

1912

1920 Giardinetti op

1920

1920 Giardinetti v

1920

1920 Giardini Oberdan hb

1921

1920 Giardini Oberdan

1922

1924 Passeggiata nel Viale della Vittoria

1924

1929 Giardini Oberdan

1929

1930 Giardinetti nel 1930

1930

1935 Viale della Vittoria

1935

Giardini Oberdan mq

1936

1937

1937

1942 Giardini Oberdan

1942

2002 Giardinetti con i ceri

2000

2013 I Giardinetti nel 2013

2004

2014 Giardinetti d'inverno

2013

2014 Giardini Oberdan

2014

2014 I giardinetti

2014

2914 Giardini Oberdan

2014

Giardinetti 7

2015

2019 i giardinetti d'inverno

2019 – In inverno

Giardinetti m

Giardini Oberdan mk

Giardini Pubblici hr

Giardini pubblici

I Giardinetti

Viale della Vittoria

 

 

L’ANTOLOGIA TUDERTE: “Quanno el calmajo è el còre” (Andrea Carbonari)

21 Lug

Antologia TuderteScrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.

andrea 4ANDREA CARBONARI

MARINELLO IL CAVALLUCCIO (di Andrea Carbonari)

Quando quel giorno scomparve, saltellando come sempre verso l’azzurro e non tornando più, proprio allora capimmo tutti che era una creatura, venuta dal mare. Per noi, al paese, era Marinello, soprannominato anche cavalluccio, per via di quel suo saltare e saltellare e galoppare e zampettare di qua e di là e sempre con ghigno di sberleffo in viso. Che buffo quel suo volto: di eterno bambino; e pensare che quando lo conobbi era già anzianotto, ma gironzolava, saltellava e rideva sempre come un bambino; sì Marinello era uno di noi, sebbene fosse molto più grande; e forse anche migliore di noi, sebbene la natura con lui non fosse stata affatto generosa: magro, magro, stortignaccolo, con quel collo lungo da giraffa, le movenze da cavallino irrequieto e la testa piccola piccola da cui sbucavano gli occhi neri sempre roteanti e uno sguardo che rideva. Così almeno lo vedevamo noi. I grandi dicevano che fosse “infelice poverino”, ma era sempre allegro e divertente e scherzoso: come faceva uno così ad essere infelice? Boh, valli a capire i grandi!? Marinello non parlava, o meglio diceva solo quelle quattro-cinque parole che ripeteva costantemente. Quando vedeva qualche fanciulla gentile e carina, le lanciava un acuto: “vipera!! viperaaa! viperaaa!” che faceva saltare in aria tutti, non solo lui, che, venuto dal nulla come un fauno mitico, dispariva nel nulla trotterellando tra le ragazze che, divertite, se la ridevano di gusto. Ma anche quando incrociava qualche vecchietta indaffarata a fare la spesa, Marinello si incuneava accanto a loro e, non visto, strillava: “Arivipera!! Ariviperaaa! Arivipera!!” e più di una volta le povere vecchiette, lì per lì spaventate, facevano cadere a terra tutte le buste della spesa e gli urlavano poi dietro: “Mannaggia a te, Marinello, e alle tue vipere!!”, mentre lui più veloce di un cavalluccio marino già svicolava verso altri lidi; che poi erano sempre quelli: la piazza, i giardinetti, la piazzetta del mercatino, dove, di notte, faceva le prove per parcheggiare la macchina. In realtà Marinello una macchina non ce l’aveva, ma di certo la desiderava tanto se, quasi tutte le notti, molto tardi, andava lì in piazzetta e munito soltanto delle sue braccia, con cui faceva finta di tenere un volante, della sua voce roteante “brum, brum!” e della sua fantasia, era lui stesso la macchina dei suoi sogni, e tra un “bruum, brum” e “wom, wom, wom” e “iiihh, iihh”, correva, frenava, sfrecciava a centomila all’ora sui circuiti della sua immaginazione e poi, esausto pilota, parcheggiava perfettamente lì nella piazzetta del mercatino tra due macchine, vere però, che non sfiorava affatto. Oltre alla mania della macchina Marinello aveva quella del presepe: mitico il suo presepe, non perché fosse bello, anzi, ma perché lo teneva nella sua cameretta con le stesse lucine sempre accese e le stesse statuine di gesso e lo stesso muschio e la carta stagnola per tutto l’anno. Si´, avete capito bene: tutto l’anno. Lo aveva fatto una volta, da giovane, e poi non lo aveva mai più disfatto per poterselo guardare e rimirare ogni giorno di ogni mese dell’anno, poco importava a lui che in agosto non fosse Natale: il presepe era il presepe e c’era sempre, come la macchina da parcheggiare e le vipere da sbeffeggiare. Quel giorno, all’improvviso, non si sentì più di notte la sua macchina percorrere le miglia della fantasia, non riecheggiò più il suo “viperaa”, del presepe non rimase traccia e di Marino, cavallino dal volto bambino, si perse la vita, che probabilmente mutò o tornò ad essere ciò che era già stata, nel fondo di un mare nero o forse rosso come la sua macchina, di cui lui è l’eterno, ilare cavalluccio.

Andrea Carbonari

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina due

17 Lug

filippo

 

La stessa difficoltà si incontra nel definire con precisione il ceto Popolare, sicuramente più complicato data la sua grande eterogeneità, Questo era composto dai più ricchi artigiani (che oggi definiremo industriali), mercanti, professionisti, uniti ad alcuni rami di famiglie dell’aristocrazia che avevano preferiti schierarsi con il “Popolo”. A questo ceto ed alla qualità di cittadino non apparteneva affatto il popolino, i piccoli artigiani, i salariati, privi dei privilegi di cittadinanza appartenenti solo ai membri di casate rilevanti per censo, nascita e potenza e perciò abili a ricoprire le magistrature cittadine. L’estromissione dalle cariche pubbliche dei magnati ghibellini fu di breve durata, poiché esattamente 40 anni dopo furono riammesse alla magistratura priorale. Il priorato in quei tempi, come in tutta l’Italia comunale, era espressione delle arti e delle corporazioni, e questo significò per tutti i magnati, che ambivano a ricoprire la carica, dover fare atto di umiltà e iscriversi ad una delle arti cittadine. Dunque il 1337 segnò una decisa affermazione del partito guelfo, sancita ancor più vigorosamente dalla stesura di uno statuto che, grazie alla rubrica 70, si caratterizzava per una impostazione antimagnatizia. L’incessante lotta tra i due partiti dopo il 1337 ebbe un periodo di breve tregua, che venne presto interrotto dal riaccendersi di nuovi conflitti ed aspri scontri. Come abbiamo visto, a Todi vi era un’unica classe di cittadini di diversa origine, rappresentante il ceto di reggimento abilitato alle magistrature comunali, mentre ne erano del tutto escluse le classi popolari; ma dalla seconda metà del XV sec. il privilegio di cittadinanza cominciò ad estendersi sensibilmente, anche al popolo minuto che ne era stato finora escluso. fattore, in concomitanza col generale processo di aristocratizzazione e di chiusura nobiliare in Italia, determinò nel corso del XVI sec. una reazione da parte delle famiglie aristocratiche che avevano ab antiquo retto la cosa pubblica, e che erano evidentemente superiori ai ceti popolari ricompresi nella nuova composizione della cittadinanza, la cui base si era notevolmente allargata.

 

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina uno

 

L’ANTOLOGIA TUDERTE: “Quanno el calmajo è el còre” (Paola Biganti)

13 Lug

Antologia Tuderte

 

Scrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.

 

Paola Biganti

PAOLA BIGANTI

DENTRO LE MURA (di Paola Biganti)

Figlia di Edmondo Biganti che è andato a vivere in Brasile, però ha amato Todi tanto più di che se avesse vissuto sempre li… Quando si è sposato con mia madre Rosanna Carrara, milanese che abitava in Brasile, si sono trasferiti a Todi perché mio padre voleva una figlia femmina che fosse nata ”DENTRO LE MURA” Nel dicembre del 1959 sono nata all’Ospedale con la neve molto alta… e dentro le mura…E con la certezza di essere una vera TODINA! Sono cresciuta amando Todi da lontano e i miei ricordi quando tornavo a Todi sono come un sogno meraviglioso!! Venivo sempre d’estate e rimanevo nella casa dei nonni sopra alla Pasticceria, mi ricordo gli odori dei dolci che mi svegliavano per il dolce soggiorno a Todi. La nonna Maria che mi portava il maritozzo ancora caldo con la panna quando ero ancora a letto! I Baci Perugina che mi portava tutte le sere… tanti chilli in più ogni volta… La casa era grande e giocavo di nascondermi nei saloni, andare nei magazzini della pasticceria con i meravigliosi aromi … o nella grande cucina della nonna dove facevamo tanti pranzi e sempre pieno di invitati a mangiare… Quanti personaggi che ho conosciuto a casa loro e quante storie todine ho avuto la fortuna di ascoltare e ancora continuano nei miei bei ricordi… Una volta mi hanno lasciato fare una festa nella sala Biganti per i miei amici adolescenti todini… poveri zii… abbiamo fatto tanto casino, anche i gavettoni con l’acqua abbiamo buttato addosso alle persone che passavano nella Via Mazzini… mai più mi hanno lascito fare feste nella meravigliosa sala… Quanti amici ho fatto, com’era bello potere camminare per la città, su e giù della piazza ai giardinetti… sedersi con gli amici nel muretto di San Fortunato, andare in giro per la compagna con il motorino di mio cugino. Si poteva discutere di politica (anche se ingenua in qual periodo) con libertà, perché in Brasile vivevamo in una dittatura e non si poteva parlare di politica… Con tutto questo amore per Todi e per la mia famiglia ho deciso di fare l’anno scorso una mostra in omaggio a tutti e alla città. Grazie alla Protodi, alla Regione e a Marcelo Weber (grande organizzatore di eventi in Brasile) ho potuto realizzare questo sogno e fare una Mostra nella meravigliosa Sala Delle Pietre, dove ho raccontato un po’ della storia dell’arte della mia famiglia e principalmente di TODI. E durante i quindici giorni che è durata la mostra, ho ricevuto la visita di tanti todini che mi hanno raccontato tante storie della città! Che fortuna essere nata in una città cosi bella e piena di storia e di arte!!
Paola Biganti 

 

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina uno

12 Lug

filippo

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina uno

Per comprendere la nascita e le vicende storiche del ceto patrizio e nobile della città di Todi, e in modo particolare la divisione che all’interno dello stesso patriziato si verificò tra il così detto Collegio degli Statutari da una parte, e il Collegio dei Compagni dall’altra, che costituivano il primo ceto patrizio, è necessario ripercorrere brevemente alcuni momenti della storia di Todi dal XII al XIV secolo. Todi, di fede ghibellina, fu, come tutti i comuni umbri, interessata delle lotte tra guelfi e ghibellini. La prima data certa che possediamo che attesti il conflitto tra le due fazioni è quella del 1169, quando lo storico cinquecentesco Gian Fabrizio degli Atti, nella sua Cronaca, scrive: “Fo la guerra in Todi tra lo Popolo e li boni homini cioè li ghibellini”. Il 1337 segnò una svolta determinante in merito alle questioni politiche tra le due fazioni. Predominando il partito Popolare ovvero guelfo, si arrivò alla stesura dello statuto comunale che, rispetto al precedente del 1275, denotava chiaramente una impostazione antimagnatizia, mirata ad isolare i così detti boni homines ghibellini ed a impedire loro ogni tipo di partecipazione al reggimento del comune. Il nodo della questione stava appunto nella rubrica 70 dello statuto dove il legislatore elencava tutte le famiglie magnatizie riportando il cognome o la denominazione d’uso insieme con i singoli capofamiglia che, appartenendo al ceto magnatizio, erano considerati facinorosi sediziosi e proprio perché pericolosi per la quiete pubblica venivano estromessi dalle magistrature comunali. Chi erano questi magnati o boni homines ghibellini? Non è facile tracciare un profilo sociale univoco di queste famiglie; cercheremo comunque di inquadrare in generale tali casate indicando fra gli appartenenti al ceto magnatizio la nobiltà feudale che controllava ancora grandi possessioni terriere, arroccata e chiusa nei castelli del contado da cui spesso prendeva la denominazione (nobili di Castel Vecchio, nobili di Castel Rinaldi, nobili di Montione ecc.). Si trattava spesso anche di milites, discendenti da cavalieri venuti in Italia al seguito degli Ottoni, degli Hoenstaufen o, in rari casi, discendenti di stirpe longobarda o franca. Questi si erano inurbati entro le mura cittadine ricreando al loro interno un tipo di struttura feudale anche architettonica che aveva il suo nucleo centrale intorno alle case torri, e a vere e proprie corti che richiamavano chiaramente la struttura castrense.

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina due

L’ANTOLOGIA TUDERTE: “Quanno el calmajo è el còre” (Antonella Ferrovecchio)

10 Lug

Antologia Tuderte

Scrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.

 

ferrovecchio 2

Antonella Ferrovecchio

TODI DA UNA FINESTRA

Crepitii del silenzio!
Ultimi sobbalzi
di una giornata d’assalto.
Echi invernali
assorbiti dai vetri.
Sui declivi nottambuli,
opalescenze nebbiose
abbracciano pietre meste
di case incastonate.
Tetti fuligginosi e misurati,
pronti da tanto
all’inverno stentato nel farsi grigio.
Gli occhi cauti
attraversano
il tutto disadorno
ma illuminato,
seguendo il proprio rumore,
rimestando raminghi
il proprio respiro.
… E il tramonto?…
Furtiva
mi aggrappo
al fogliame del mare,
da qui, questa sera,
posso solo volare
verso turbolenze oceaniche.


©Antonella Ferrovecchio2014

 

ALTOBELLO CHIARAVALLE (un articolo di Elio Clero Bertoldi)

6 Lug

Elio Clero Bertoldi

 

Ritrovate a Roma le incisioni sulla tragica fine
di Altobello Chiaravalle vittima di cannibalismo

Le “fotografie” inedite della tragica fine di Altobello Chiaravalle da Canale, di nobile famiglia di Todi, avvenuta nell’agosto del 1500 ad Acquasparta, sono state ritrovate da due studiosi, Francesco Canali e Emilio Lucci e verranno pubblicate a breve. L’annuncio della scoperta lo ha dato a Todi la professoressa Erminia Irace nel corso di un convegno su Machiavelli, che ha mostrato anche le “slide” di due xilografie – tecnica di incisione su legno di immagini e testi che poi inchiostrate vengono stampate col torchio, su carta o seta – nelle quali é rappresentata e descritta la scena in cui Altobello viene colpito a morte da Giampaolo Baglioni e Vitellozzo Vitelli. Le due xilografie sono state ritrovate in una pubblicazione di quattro facciate in cui é descritta, in ottave, la “tristissima morte” di Altobello.
Insomma, una sorta di reportage, redatto e stampato pochi mesi dopo i fatti, a caldo insomma, di un sanguinoso scontro d’arme e di un atto di cannibalismo in danno del nobile e feroce (secondo la tradizione) tuderte.
Siamo a Todi dove le famiglie ghibelline (capeggiate dai Chiaravalle, alleati storici dei Colonna) e guelfe (con gli Atti, fedelissimi agli Orsini) si fronteggiano ormai da due-tre secoli con uccisioni, alternative cacciate dalla città, stragi e atrocità di ogni genere.
I Priori di Todi, scrivono nel 1499 a Lucrezia Borgia governatrice di Spoleto e ne guadagnano l’alleanza, rappresentando le violenze e le prevaricazioni di Altobello. Un esercito di 13.000 uomini viene così inviato da Papa Alessandro VI, padre di Lucrezia, al comando degli Orsini, dei Vitelli, dei Baglioni, degli Alviano, degli Atti contro i “prevaricatori” ghibellini. Altobello, con 8000 soldati, si rinserra in Acquasparta. Gli assedianti bombardano, con artiglieria francese, per dieci ore consecutive le mura, le sgretolano in un punto e si aprono una breccia, irrompendo in città. Il Chiaravalle, che ha combattuto furiosamente, ma ormai abbandonato da tutti, cerca scampo e si nasconde in un fienile. É qui che lo scova un soldato dell’esercito papale. Lui si schermisce: “Sono un povero compagno…” Ma il suo abbigliamento non appare proprio quello di un povero cristo. Così viene fatto prigioniero e trascinato sulla piazza, riconosciuto e praticamente linciato. Il suo corpo squartato, dilaniato sarebbe stato anche vittima di cannibalismo. Una vecchia, subito soprannominata “La Sparviera”, gli avrebbe addirittura mangiato il cuore.
A breve la pubblicazione (una sorta di foglio, o giornale, a mano) ritrovata negli archivi verrà ristampata e presentata al pubblico. Si scoprirà a quel punto se sarà stata scritta con intenti di propaganda, da un cronista del partito Colonnese (ghibellino) o da quello degli Orsini (guelfo).

Elio Clero Bertoldi

 

Altobello Chiaravalle

Busto marmoreo di Altobello Chiaravalle

 

 

 

L’ALICANTO (di Jacopino Tudertino)

6 Lug

alicanto

 

L’ALICANTO (di Jacopino Tudertino)

’N ucello strano, mitico del Cile,
dice che camba a magnà l’oro e argendo,
attusicché de notte, a celo spendo,
risplenne attusiccòmme annasse a pile.
Tando luciòre stuzzica la brama
de quilli del deserto d’Atacama.

Se sa che l’omi so’ tamando ingordi
e pe’ scuprì dòe màe annisconne l’ori,
vonno diedro a ’st’ucello e i sui bajori.
Lùe el trabbocchetto fa ta ‘sti balordi,
stegne l’ale (aerà un interruttore?),
tusì ‘gni esoso ‘ntel deserto more.

Li miti cionno sembre ‘na morale
che doerébbe de ‘mbaracce a vive
mappù la storia ce la famo scrive
da la vorace golosìa ancestrale.
Mo l’alicanto è un simmolo a spaéndo,
dòe vinge l’oro e stiatta ‘l sendimendo.

Jacopino Tudertino