Archivio | dicembre, 2014

El Natale de Jacopino 2014

23 Dic

Il cono

EL NATALE DE JACOPINO

Le feste de Natale e fine d’anno
te fonno de sembrà d’esse più bono.
Braccicheréssi puro, in piazza, el cono
e abbaceréssi i pìa ta chi è tiranno.

L’ipogrisia è ‘na tara de l’umano.
Issa te porta a jì pe’ ‘na stradaccia
addòe te trùi, nolende, faccia a faccia
co’ chi nun strigneressi màe la mano.

“Mavvìa, è Natale e tocca esse più boni.”
Direbbe carcheduno ch’è bonista.
Io ‘nvece me so’ rotto li cojoni

e nun ce sto! Me so’ fatto ‘na lista
de quilli che conzidero cialtroni.
Si nu’ li conto nun sirà ‘na svista.

Jacopino da Todi 2014

Figli dell’Arma (di Annamaria Massari)

13 Dic

Porta Catena nel 1920

1920 Porta Catena

2014 Porta Catena

2014 Porta Catena

FIGLI DELL’ARMA

Ho vissuto nelle caserme fino all’età di tredici anni.
I miei ricordi di quei posti sono come un quadro dove si ricompongono immagini spezzate di una splendida realtà. La caserma di Todi, dove ci siamo fermati per sei anni si trovava, allora, in via Giacomo Matteotti, nel borgo contrassegnato con l’effigie fiera dell’aquila, sopra alla Porta Catena. Il grande edificio versa, ad est con le finestre sulla via e ad ovest sul colle che declina verso le campagne.Ai lati il vicolo della Trinità e quello di Mezzomuro fanno ala a questa grande dimora. All’interno si dispiegava, all’epoca, tutto un mondo di ambienti e corridoi invalicabili per gli estranei, essendo zona militare. La stanza del piantone, gli uffici, gli appartamenti riservati al Capo di Stazione ed al Capo di Sezione, le camerate, la grande cucina, il cortile e, sotto, le stalle per i cavalli, erano collegati da ampi e luminosi androni e da scale antiche con gli scorrimano in ferro battuto.
Tutto era ordinato, pulito, perfetto e le nostre vite scorrevano sotto un alone di sicurezza su cui vegliavano giovani, con le divise impeccabili e i fregi colorati; angeli neri con lo sguardo interrogativo e malinconico e i visi poco più che imberbi; Carabinieri, gente che credeva nel senso del dovere e nel tormentato compito di tutelare il bene comune e far rispettare la giustizia. Uomini con le ali a cui la vita riservava solo sacrifici, nottate di appostamenti, sopralluoghi scomodi, verbali, inseguimenti con le armi in mano e paura di essere sempre esposti al pericolo. Io li adoravo tutti come se fossero grandi eroi ed ero fiera di vivere con loro sotto le stesse mura.
Durante le feste importanti papà invitava a pranzo, in casa sua, i militari senza il permesso di andare in licenza, perché “non dovevano” rimanere soli. Ricordo ancora tanti dei loro nomi, dei loro visi e del loro modo di parlare e, ancora oggi, ogni volta che incontro per strada un giovane ed anonimo carabiniere, mi viene voglia di abbracciarlo e baciarlo come se fosse un parente. Papà era il capo della Stazione. Fuori dall’appartamento che gli era stato assegnato noi bambine circolavamo in questi grandi spazi. Io giocavo con Enrico, figlio del capo di Sezione e mio coetaneo. Frequentavamo la stessa scuola e facevamo i compiti insieme, poi, nel pomeriggio, giocavamo sempre. Enrico era divertente, s’inventava sempre qualcosa e morivamo dalle risate. Quello fu un tempo veramente felice. Per me, anche lui è stato come un fratello della grande famiglia e fa parte delle radici di questa mia storia a pezzi. Andavamo nelle camerate o nella grande cucina dove alloggiavano i militari e, spesso loro ci mostravano le foto delle mamme o le loro cose più personali.
Ci fermavamo a lungo nel cortile interno della caserma o nelle scale del lato sud che uscivano sul vicolo della Trinità. Ricordo un improvvisato “”ospedale delle bambole”” da dove le stesse, dopo i nostri maldestri e difficilissimi interventi, venivano fuori più rotte di prima. Ci facevamo le sigarette con la carta arrotolata e non riuscivamo nemmeno ad accenderle, ma era bello lo stesso provare a fare i grandi. Ci raccontavamo tante barzellette. Spesso andavamo a fare compagnia al “”piantone””, nello stanzino caldo dove c’era soltanto il letto, una stufetta, un tavolo ed il telefono. Il cortile era un grande spazio, chiuso tra mura altissime, con un tetto di cielo ed un’aiuola fiorita al centro. La grande cucina si affacciava qui e mandava profumi deliziosi per l’aria, poiché Cesira la cuoca cucinava per i carabinieri come se fossero i suoi figlioli. Muri, cielo, fiori, profumi e noi bambini rumorosi come rondini in primavera, rendono questo luogo indimenticabile .
Ricordo bene il nostro appartamento che ora mi sembra un angolo di paradiso. Nel lato est le finestre, dal terzo piano, si affacciavano sulla strada principale. Pietre antiche, voci sommesse, piccole botteghe, scalette, vicoli e vicoletti affacciati al sole come lucertole e rumori di tacchi sul ciottolato, sottofondo tranquillo allo scorrere della vita, che giungeva alle finestre quasi attutito e disperso nell’aria, come se provenisse da tempi passati. Nel lato ovest, le finestre dominavano sul cortile immenso che faceva eco anche al minimo fruscio, poi sull’appartamento del comandante della Sezione, e dietro, sui tetti e sui monti.Tante stanze s’inseguivano in un corridoio lunghissimo e luminoso, ma di sicuro, quella più bella era il bagno, unica esposta sul versante ovest con panorama. Era una stanza grande come una camera matrimoniale. Mamma stirava lì e c’era un grande tavolo dove noi, spesso ci fermavamo a studiare o a leggere, o a giocare. Dalla finestra si scorgevano i tetti della città che degradano verso la valle, spesso sullo sfondo di cieli infuocati nel tramonto. Ricordo stupendo dei sogni, ricordo di mamma, ricordo di una città bellissima. Sotto al nostro appartamento si trovavano gli uffici. Da qui si alzava tamburellante e continuo il rumore delle vecchie olivetti, sempre in attivo e il profumo forte e gradevole di tabacco dei giovani che fumavano nei momenti di pausa.
Gli uffici, ordinati e sempre ben organizzati rappresentavano, per me bambina, il mondo maschile, severo nei ritmi lavorativi ed austero nell’obbedienza e nelle disposizioni sempre rigide. Lì mi sentivo intimidita, perché, al di là della cortesia, poca udienza ci era accordata… Infine sotto alle camerate, c’erano le stalle con i cavalli. A noi bambini era vietato andarci da soli e dovevamo aspettare che ci accompagnasse qualche gentile milite a riposo. A guardia della stalla e dei cavalli c’era Dik. Era un cane lupo, ma io non lo ricordo come un gigante e forse era cucciolo, aveva il pelo marrone. Era bellissimo, ma quello che mi è rimasto impresso di lui è stato sempre lo sguardo e a quello penso sempre. Sembrava un bambino pronto a guizzare nel gioco come noi e la sua lingua ci avrebbe leccato, se avesse potuto per segnalarci che eravamo nel suo branco anche noi. La sua passione erano i cavalli, lui viveva con loro e vigilava attento su ogni spazio. Li seguiva dappertutto, se possibile anche talvolta in pattuglia e, sempre fedele, come un carabiniere, li riaccompagnava a casa. Quando fu soppresso il corpo dei carabinieri a cavallo, non ci furono più motivi per trattenere questi meravigliosi animali in caserma, quindi si preparò il loro trasferimento. Il giorno stabilito fu proprio brutto. Dik aveva capito. Fu legato alla catena, ma appena i cavalli si diressero verso la stazione che li avrebbe allontanati da lì per sempre, riuscì a liberarsi e li inseguì fino allo sfinimento delle forze, non so bene fin dove. So che poi, quando ritornò moribondo, non abbiamo più avuto sue notizie.

Quel giorno ho visto i carabinieri addetti alla cura dei cavalli piangere. Anche Dik ha pianto, ha strappato le catene, ha inseguito il branco, ha difeso la sua famiglia e poi è tornato a morire in caserma. Anche lui come un carabiniere, è stato sempre fedele nella vita. Quando passo nel vicolo della Trinità, davanti al cancello che recinta la zona delle stalle, sento ancora, dopo cinquant’anni, una stretta nel cuore e penso a questo mio piccolo mondo. Vorrei proprio, come talvolta capita anche a me, che chi vive o vivrà tra queste mura, sentisse sussurrare gli echi del passato, i ticchettii delle vecchie Olivetti, o i nitriti dei cavalli, il vocio dei bambini, o il profumo intenso del tabacco, sentisse questa vita che, ormai appartiene al passato.

Annamaria Massari

La Madonnuccia (di Marcello Castrichini)

5 Dic

Tratto dal libro “TODI Storia e Arte della Parrocchia di San Nicolò”

La Madonnuccia

LA MADONNUCCIA

La si incontra salendo via Ulpiana, sul lato sinistro, appena dopo il `vicolo Bello’. Della primitiva chiesa non rimane niente di significativo. Una radicale e brutale trasformazione architettonica ha alterato, stravolgendolo, l’aspetto esterno e i volumi interni. Delle testimonianze storico-artistiche rimane invece molto, anche se non in situ: i due affreschi, distaccati nell’occasione dei lavori, San Pietro e San Paolo, oggi conservati nella parrocchiale. L’impostazione di queste due opere e le affinità con altre decorazioni del Polinori hanno fatto pensare sempre ad un esito importante, superstiti di una decorazione più ampia. Gli Inventari ci forniscono la spiegazione: la monumentalità delle due figure era giustificata dal diverso titolo che la chiesa aveva precedentemente che era proprio dei Santi Pietro e Paolo.
Attualmente, dietro l’altare si trova l’affresco raffigurante la Madonna col Bambino, purtroppo in condizioni di pessima leggibilità. Il volto della Madonna particolarmente bella, e parzialmente quello del Bambino sono le parti meglio conservate, attraverso le quali si riconosce la mano di Andrea Polinori, nel periodo della maturità, intorno al 1635-40; il volto della Vergine, non più lo standard usato precedentemente per ogni volto femminile, trova analogie strette con le opere di tale periodo, tra cui citiamo la Maddalena di San Filippo a Todi, il sant’Antonio da Padova della tela con l’Assunta e santi della Parrocchiale di Avigliano Umbro.
L’oratorio della Madonnuccia fa risalire le sue origini a circa gli anni quaranta del secolo; per questo forse non è riportata nella Veduta di Todi del Lauro del 1625 e successive.
Gli Inventari, tra le molte informazioni, ci indicano che la pala dell’altare maggiore era il dipinto, oggi nella Parrocchiale, di A. Polinori, San Terenzio in adorazione della Eucaristia, datato 1644 del quale, sempre grazie al documento, apprendiamo il nome del santo raffigurato.
L’attuale affresco dell’altare, la Madonna col Bambino proviene da un luogo della città di Todi, chiamato le Fornaci, e trasportato alla Madonnuccia nel 1726 c.: in seguito a questo episodio, probabilmente, si ebbe il cambiamento di titolo della chiesa che divenne la Madonna delle fornaci, e quindi la Madonnuccia.
L’oratorio venne eretto intorno al 1640 dalla Confraternita del SS. Sacramento che aveva sede e altare nella Parrocchiale.
In questa sede ci si limiterà a dire che la chiesa contava tre altari: il maggiore ornato dalla pala del. Polinori, con ai lati i due affreschi dello stesso pittore.
Il secondo altare era dedicato a San Liborio, e vi era un dipinto raffigurante San Liborio, opera perduta e il terzo era quello della Madonna delle Fornaci.
Qui trovava collocazione l’affresco trasportato, rifinito da cornici dorate (simile alla istallazione della Madonna del Pero avvenuta nella Parrocchiale intorno al 1693); nello stesso altare è indicata una, non meglio specificata, tela dipinta.
La sagrestia contava tra gli ornamenti cinque quadri di cui si ignorano i soggetti.
Attualmente la chiesa della Madonnuccia, ancora luogo di culto, è costituita da un semplice ambiente con un unico altare nel quale è stato collocato l’affresco della Madonna delle Fornaci.

Marcello Castrichini