Archivio | gennaio, 2019

LE CENDOSCALE (di Jacopino Tudertino)

31 Gen

LE CENDOSCALE

Ju pe’ le Cendoscale, a primavera
(che cendo pu nun so’ ma cendo e rotti),
a pomicià se java. Erimo potti
e ce s’annàa sul fasse de la sera.

Allora nun ce stéono i lambioni
e el bujo, co’ la luna appena sorta,
tra lI bacetti e lisci d’ogni sorta,
stéono a facce muti i testimoni.

Le Cendoscale, si le fai ju a scegne,
t’artrùi tramenzo a Via Sandamaria
ma si le fai a salì, col fiato a stregne,

arrìi su a Portalibbera e te sfiati
a fa’ ‘n salita, ansanno, ‘st’aspra via.
Vordì che a iosa l’anni so’ passati.

Jacopino Tudertino (trinduno gennaro 2019)

L’ACHETTO DE CASIJANO

25 Gen

L’ACHETTO DE CASIJANO

Li sgherri de Lodovico Atti fonno ‘n’imboscata tal giureconsulto Gerolamo Monticastri, uomo colto e figura nobbile e proba. Lùe fu ferito mortalmente da numerose pugnalate. Se stéa ‘ntel millecinguecendovendinòe. El maggistrato scegnéa le scale del Palazzo del Popolo doppo ‘n infocato intervendo, tenuto in Cunzijo Generale. In quill’occasione perorò la difesa de l’interessi del Commune e quindi de la communità tuderte, impedenno ta Lodovico Atti de ‘mpossessasse del piccolo aco de Casijano, sussopre al qualo l‘esponende de l’Atti voléa mette le mano. Pe’ mettese condro la potende famija de l’Atti ce voléa ‘n bel coraggio e testo nun mangò ta Gerolamo Monticastri ma je costò la vita. A momoria del suo sagrifizzio che portò al trionfo della giustizzia, suo fijo Faustino facette apporre ‘na lapide, drendo al chiostro de San Fortunato, co’ l’iscrizzione latina che tradotta dice: “Al giureconsulto Gerolamo Monticastri, uomo integerrimo, ottimo cittadino, benemerito a Dio e alla Patria, per la cui difesa e salvezza stimò sempre dolce e onorevole affrontare quella morte che nell’anno 1529 lo colse”.

 

 

 

LA LEGGENDA SUL LAGHETTO DI CASIGLIANO

Sul laghetto di Casigliano aleggia una leggenda. I ruderi che insistono nei suoi pressi sono i resti di una chiesetta, dedicata a Santa Degna. La Santa, le cui spoglie giacciono nella basilica di San Fortunato, soleva venire in eremitaggio là dove c’era un minuto borgo e dove ora insiste il laghetto, formatosi, come da leggenda, dopo la sparizione del gruppetto di case. A Degna le apparve Dio in sogno che l’avvertì d’un imminente pericolo, consigliandola di andarsene senza voltarsi indietro. Così fece Degna ma non riuscì resistere di volgere lo sguardo indietro verso il piccolo borgo che vide sparire inghiottito dal terreno, dal quale sgorgò una sorgente, formando così il laghetto. La sua curiosità e la non osservanza del consiglio di Dio causò, per lei e per la famiglia una vita futura molto sfortunata. Santa Degna morì nell’anno 1303.

ELEONORA DEGLI ATTI (di Elio Clero Bertoldi)

19 Gen

PITIGLIANO

Eleonora degli Atti, un femminicidio nel Rinascimento

Lei, Eleonora degli Atti, viene descritta come una donna bellissima appartenente ad una antica e aristocratica famiglia che primeggiava in Todi; lui, Orso II Orsini, conte di Pitigliano, figlio di Giovan Francesco apparteneva ad un casato di primissimo piano di parte Guelfa, linea di Monterotondo-Pitigliano, che aveva dato tre pontefici e ben trentaquattro cardinali. Giovan Francesco, che aveva ricevuto anche il collare di cavaliere di San Michele (ordine del Re di Francia), si era fatto un nome di condottiero di coraggio anche se non particolarmente esperto di strategia militare.
Non aveva saputo imporsi più di tanto neanche con i figli che tentavano, ciascuno per proprio conto, di spodestarlo. Persino gli abitanti di Sorano e Pitigliano, sobillati dal figlio Nicola, gli si erano ribellati e gli avevano ucciso, tra gli altri, nel corso della sommossa anche la moglie Ersilia Gaetani, mettendo a sacco pure il suo palazzo. Le parentele, invece, erano giuste. Tra i suoi cognati Gian Giacomo dei Medici di Firenze (maritato a sua sorella Marzia) e il duca Pier Luigi Farnese (di cui era stato uno dei capitani durante la “guerra del sale” di Perugia, sposato all’altra sorella, Geronima).
Orso II, nato nel 1527 ed Eleonora si erano sposati con lussuosa pompa come si addiceva a rampolli di due illustri e ricche schiatte, in pieno Rinascimento.
Eleonora aveva seguito il marito a Pitigliano, ma si divideva anche fra il palazzo dei suoi in Todi ed il castello avito di Sismano, maniero medievale del territorio tuderte, rafforzato da due torri semicircolari, che era stato possedimento dei Caetani (prima di diventare Papa, col nome di Bonifacio VIII, Benedetto Caetani aveva vissuto a Todi di cui suo zio era vescovo ed aveva avuto modo di incontrare, e scontrarsi, con Jacopone da Todi).
D’altronde Orso si era dato, come il padre ed il fratello, al mestiere delle armi ed era spesso assente. Aveva militato con l’esercito della chiesa contro i francesi nella “Guerra di Parma” (1551) e un lustro più tardi, sempre sotto i vessilli pontifici, aveva affrontato gli Imperiali. Uomo rissoso e rozzo nei modi si contendeva con Nicola, altrettanto feroce e dissoluto, la contea di Pitigliano, con ogni mezzo (anche con ricorrenti congiure), da una parte e dall’altra. Godeva dell’appoggio dei Medici (Cosimo lo aveva addirittura creato cavaliere di Santo Stefano nel 1563), mentre Nicola si appoggiava all’imperatore. Gli scontri tra le fazioni non si contavano, in particolare per il possesso della villa di Montevitozzo.
Orso non solo aveva fatto arrestare un gran numero di oppositori, ma aveva ordinato di uccidere i principali fautori delle rivendicazioni del fratello. In una circostanza, dal canto suo, Nicola aveva pagato un soldato per avvelenare Orso. L’assoldato, però, aveva rivelato il piano alla vittima designata, che era passata al contrattacco: aveva lasciato entrare, sguarnendo apparentemente le guardie, quaranta congiurati nel maniero e, con una mina, ne aveva fatti saltare in aria 35. Alla morte, nel 1567, del padre, tumulato con ogni onore nel Duomo di Orvieto, la situazione divenne, se possibile, ancora più critica tra i due fratelli. Fino ad arrivare, nell’aprile del 1573, all’omicidio, mandante Orso, di Galeazzo Farnese, alleato di Nicola. Sembrò che la vicenda dovesse precipitare in una piega sanguinosa, magari con lo scoppio di una guerra. Ma Cosimo de’ Medici, con le sue riconosciute doti di mediatore, riuscì a trovare il modo di pacificare le parti.
Non trascorsero due anni ed Orso si macchiò di un altro orrendo, odioso e sanguinoso crimine. Questa volta in prima persona, senza ricorrere a sicari, ma con le proprie mani.
Manda alla moglie Eleonora un messaggio col quale le chiede – lei si trovava a Sismano di Todi (o secondo altre fonti a Morlupo, vicino Roma) – di raggiungerla a Pitigliano. Lei si affretta, da fedele e onesta consorte, ignara del destino che l’attende. Il marito l’aspetta sul ponte Strozzone, alle porte della capitale della contea, Pitigliano. Invece di coprirla di baci, la massacra di pugnalate. Così tante da sfigurarla. Il feroce uxoricidio solleva la città ed il contado, sempre poco propensi al dispotico ed esoso dominio degli Orsini.
Il conte, in difficoltà, tenta di motivare il suo gesto come un delitto d’onore: il tradimento, non meglio specificato, della consorte.
Nessuno gli crede e l’insurrezione monta. Orso, allora, cerca di giustificarsi spostandosi a Firenze, dove nel frattempo Francesco ha ereditato il ducato da Cosimo (di cui il conte di Pitigliano risulta vassallo dal 1555). Ma l’Orsini non viene neppure ricevuto a corte, tanto è il raccapriccio che l’odioso delitto ha suscitato in tutta la Toscana e fuori.
Leggi anche – Il Papa che portò guerra per il sale a Perugia Paolo III un pontefice di polso
Il suo momento, in effetti, sta passando. Finisce del tutto e nel sangue nel marzo dell’anno dopo. Ancora su un ponte, stavolta quello di Rubaconte, sempre nel territorio della contea. Il destino si presenta nelle sembianze di Prospero Colonna, uno dei leader del partito ghibellino (omonimo del ben più famoso ed eroico parente, deceduto qualche decennio prima), alleato di Nicola e soprattutto amico personale di Galeazzo Farnese. É la sua spada che tronca la vita violenta di Orso II Orsini. La nemesi è consumata.
Elio Clero Bertoldi

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2017 Il pozzo
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