Archivio | agosto, 2015

L’Antologia Tuderte: quanno ‘l calamajo è el còre (Anna Rita Venturi)

31 Ago

Antologia Tuderte

Scrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.

Anna Rita VenturiANNA RITA VENTURI

La Rocca

Quand’eravamo potti, d’estate, se eravamo stati boni, ci portavano alla Rocca. Volendo fare un paragone con i tempi odierni, per noi ingenui bambini di fine anni’60 – inizi ’70, era come prometterci di andare a Mirabilandia. Quel “ci” erano la signora Silvia, nonna dei miei amici fraterni Roberto e Cristina (loro fratelli veri) e Maria, mia sorella grande (16 anni di differenza). Andare alla Rocca, al centro di Todi, per noi che abitavamo nel vicolo delle Mattonelle vicino all’ospedale, era un evento da organizzare per tempo perché gli adulti dovevano interrompere la routine dei lavori domestici per accompagnarci essendo escluso che potessimo andarci da soli.
E per strada dovevamo comportarci bene, non correre, obbedire … perché “passavano le macchine” altrimenti “subito a casa”. Questa minaccia ci frenava fino all’arco di Sant’Antonio, poi, progressivamente e proporzionalmente con il crescere della distanza da casa, perdeva efficacia. Già all’arco di Porta Marzia cominciavamo ad essere sordi ai richiami tanto il più (della strada) era ormai fatto. Qui si perdeva un po’ di tempo per scegliere se salire per le scalette a fianco di Porta Marzia, mi pare sia via San fortunato, o proseguire per corso Cavour, tagliando poi per piazza Jacopone. La scelta non aveva in fondo molta importanza perché la meta non cambiava, solo il tempo di arrivo e qualunque fosse il percorso scelto, l’ultimo tratto lo facevamo, comunque, di corsa per arrivare primi ai leoni davanti San Fortunato, per domarli, cavalcarli, iniziando il gioco del “facciamo finta che…”. Quando anche le nostre accompagnatrici arrivavano, lasciavamo a malincuore le belve ormai dome, ma la malinconia durava l’attimo necessario a concretizzare un altro gioco, il “facciamo chi arriva prima a …” e ricominciare a correre verso il piazzale della Rocca.
E qui, via, sempre di corsa, sempre in branco, a fare la fila per i giochi, ad arrampicarci sul muretto del Mastio, saltando a terra dai sassi sconnessi e ricominciando a correre verso la fontanella per bere, poi di nuovo ai giochi inseguiti dai moniti della nonna: “non correte che sudate”, “non correte che vi fate male”, “se vi fate male vi ci faccio la giunta”, “non vi bagnate che siete sudati”…. E li facevamo tutti più e più volte quei giochi: la girandola, l’altalena a due posti, quella a un solo sedile, l’altalena su e giù, lo scivolo; li abbandonavamo giusto il tempo di farci giocare anche gli altri bambini quando le loro mamme protestavano per il monopolio. I giochi più ambiti, però, erano quelli a destra del piazzale, quelli “da grandi”. Era una gran soddisfazione salire tutti e tre sull’altalena che ci appariva gigante, due seduti sui sedili e l’altro in piedi al centro a spingere aiutandosi prima con le mani e poi flettendo le ginocchia sempre più in alto fino a toccare i bulloni, rimbalzando per il contraccolpo verso il cielo, gettando lo sguardo curioso al di là del muro del convento. Verso mezzogiorno la storia si rovesciava: tanto noi avevamo pregato per farci portare alla Rocca, tanto la nonna e mia sorella dovevano minacciare e blandire per riportarci a casa che dovevano preparare il pranzo. Ottenevamo, spesso, di fare percorsi alternativi che prolungavano il piacere di correre senza freni e limiti alla scoperta di tutti i sentieri della Rocca (ma erano ben noti anche se non ne conoscevamo la denominazione), che esploravamo come segugi raccogliendo pigne, bacche e quanto attirava la nostra attenzione per poi lasciarli attratti da altri tesori.
Qualsiasi percorso, però, finiva di nuovo ai leoni, per l’ultimo saluto a quelli davanti San fortunato o per una rinnovata conoscenza con gli altri due presenti dalla parte opposta verso la Serpentina. Il ritorno era punteggiato dalla nostra insistenza e dubbiosa certezza: “però domani ci torniamo, vero? Domani ci torniamo!?”. Ci sono tornata molte volte alla Rocca ad età diverse apprezzandone aspetti diversi; ci ho anche portato mia nipote giocare, ma quando guardo il piazzale, così cambiato, mi capita che mi si velino gli occhi ed allora vedo tre bambini felici che volano verso il cielo a toccare i bulloni, e, forse, i loro sogni, con il Mastio, unico testimone immutato, che bonario lascia fare.

1926 Il Machio e la Femmina bc

1926

SOLTANTO RIFLESSI (di Anna Rita Venturi)

Passeggeri specchi
distorcono realtà.
Opaca finzione di chi
tenta di lasciare un segno.
Cubi vuoti d’acciaio
restituiscono fuggevoli attimi
senza conservare
il secolare calore
di pietre accese di luce.
Resterà la Piazza
con i suoi testimoni
a sfidare tempo e memoria.

Anna Rita Venturi

Berlino

Il Tempio della Consolazione e la leggenda del miracolo

27 Ago

Lorena Battistoni 1

Lorena Battistoni

Tratto da “IL TEMPIO DI SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE IN TODI 1508-1607”

IL MIRACOLO

Vuole la tradizione che il tempio della Consolazione sia nato da un miracolo. Era il 1508 quando un operaio, Iolo di Cecco, incaricato di distruggere il muro ormai fatiscente che un tempo cingeva il monastero di Santa Margherita nel piano di San Giorgio, scoprì un’immagine dipinta, raffigurante la Vergine col Bambino nell’atto di offrire l’anello a santa Caterina d’Alessandria. La sfiorò con un fazzoletto e, toccandosi con esso l’occhio malato, riacquistò la vista. Subito si animò la devozione del popolo, stimolata anche dal vescovo Basilio Moscardi, che era stato liberato da una pericolosa malattia grazie all’intercessione della Vergine. Egli confermò il culto ed il 13 giugno dello stesso anno intitolò la chiesa alla Consolazione, per le innumerevoli grazie concesse da Maria. Quindi, in accordo con le autorità civili, avrebbe incaricato il celebre architetto Bramante di progettare il disegno per il nuovo grandioso tempio, eventualità non improbabile dato anche il coinvolgimento nell’impresa dell’influente Ludovico degli Atti. In realtà nelle cronache locali, le prime notizie sull’immagine miracolosa risalgono al 1458, quando il vescovo Bartolomeo Alaleoni inviò una schiera di armati contro un drago mostruoso che devastava i territori lungo il Tevere nei pressi di Pontecuti. Inoltre, che le “innuberabile gratie ad ogni infirmità”, di cui parla l’Atti, fossero già ben note è dimostrato anche dall’affresco votivo raffigurante le Mistiche Nozze di santa Caterina d’Alessandria fatto realizzare già nel 1505 da tale donna Anselma nella chiesa dei Servi di Maria, oggi di San Francesco, in Borgo. Ma, al di là delle notizie riferite dalle fonti, quel che è certo è che l’immagine miracolosa fu in origine una delle tante maestà che nei secoli passati venivano poste a protezione di strade ed incroci, retaggio di una tradizione risalente all’età pagana.
Lorena Battistoni

1926 Consolazione

1926

 

DA UNA CRONACA CITTADINA

Era il maggio del 1508 e così narra la vicenda il cronista tuderte Joan Fabrizio degli Atti, che fu anche rettore della fabbrica e cancelliere della comunità di Todi:

“M°CCCCCVIII Principio de la Madonna de Consolatione. Piaque al glorioso omnipotente Dio, qual mai mancha de sua clementia, in questo milleximo che sonno da la natività del suo Figliolo incarnato del mese de maio, che una maestà dipenta in un muro antiquo, sotto el pogio de la rocha, presso le mura de la ciptà al Piano de San Iorio, quale maestà, per sua antiquità lassata offuscare tra rudi spini et stirpi et pietre, fosse meritatamente honorata; et como dismenticata ad questa nostra etade, se mustrò misericordiosa ad far gratie ad chi la discoperse da quello offuscamento. Et dato principio ad quella concurrentia, fo tanto benigna ad noi peccatori, che innumerabile gratie ad ogni infirmità faceva, et maxime liberare indemoniati, trappi, offesi de mal francese, de assassinio, de precipitio et de qualunqua infermità et pericolo se li domandava: intanto che era de tal concurso de dì et de nocte, che lì non se poteva resistare. Et facto lì alquanto de coprimento per difenderla da l’aque tempeste, per la moltitudine de le gente fo mutato quactro volte el coprimento, tuctavia crescendo. Et per le continue gratie fo visitata da tucto el populo in processione et nominata Santa Maria de Consolazione. Et presentata et visitata in breve tempo da tucto contado, locho per loco, moltiplicando li doni et voti, fo principiata la sua chiesia da’ fondamenti, et creata la sua compagnia de molti ciptadini, et dato ordine fare homini diputati ad farla offitiare et fabricare. Et cusì ad laude de epsa Madonna in breve tempo fo edificata et magnificata de edifitio et adornamento grande et honorevile, tucto de concime”.

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina tre

13 Ago

filippo

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina tre

Infatti nel XVI secolo il comune di Todi divise la cittadinanza in quattro classi che, come scriveva nella seconda metà del XVII sec. l’abate Gian Tiberio Prosperi, rappresentavano “La prima le famiglie distinte e trattate come nobili, la seconda la cittadinanza nobile più onorata, la terza il rimanente dei cittadini la quarta le rurali e meccaniche”. Conseguentemente anche il magistrato priorale, composto di dieci priori, si strutturò in modo tale che venissero al suo interno rappresentate tutte e quattro le classi, mantenendo però la preminenza della nobiltà: quattro priori per la prima classe, due priori per la seconda, due priori per la terza, due priori per la quarta: la nobiltà aveva quindi ben sei priori su dieci. Un’ulteriore evoluzione all’interno del ceto nobile portò ad attribuire due dei quattro priori del primo ceto nobile al ceto magnatizio ghibellino, ossia alle famiglie descritte nella rubrica 70, e due priori per le restanti famiglie nobili popolari guelfe. Nella seconda metà del ‘500 lo storico tuderte Pirro Stefanucci nella sua opera intitolata “ Fasti decemvirorum tudertinorum” qualificò con il termine di “Statutari” i casati descritti nella famosa rubrica 70 dello statuto. Questa definizione fu alquanto deleteria poiché innescò un meccanismo che evidentemente già era in atto al momento della divisione dei quattro priori della prima classe fra le famiglie guelfe e ghibelline, tale per cui le famiglie ormai definite come Statutarie pretesero di avere una distinzione particolare di rango e precedenza rispetto a tutto il resto della nobiltà tuderte. Questo fu causa di una profondissima frattura all’interno della élite nobiliare che riaccese i vecchi rancori di fazione, portando ad una netta separazione tra i due collegi: il primo degli Statutari, il secondo dei Compagni. Fu così che, cosa del tutto anacronistica, riemersero nuove conflittualità basate sulla ormai superata divisione tra i guelfi e ghibellini, portando anche a conseguenze estremamente negative sull’amministrazione delle cariche comunali. La controversia sulla preminenza o equiparazione di rango fra i due collegi si inasprì maggiormente tra la fine del 600 e nei primi anni del 700, quando vennero scritti alcuni trattati ed opuscoli che con ridondanti discorsi, anche sulla base di prove documentarie e citando opere di altri studiosi, cercavano di dimostrare l’una o l’altra tesi a favore dei nobili Statutari o dei nobili Compagni. Il nocciolo della questione era la rubrica 70 dello statuto e l’appellativo di “potenti e magnati” dove i nobili Compagni sottolineavano che l’essere inscritti in quella rubrica non era motivo di distinzione e superiorità, ma al contrario vi era la volontà di additare a tutti i cittadini che quei casati erano facinorosi, sediziosi, turbatori della quiete pubblica e soprattutto pericolosi per la stabilità istituzionale del comune.

Cenni storici sulla nobiltà di Todi (di Filippo Orsini) pagina uno

L’Antologia Tuderte: quanno ‘l calamajo è el còre (Paola Pellegrini)

4 Ago

Antologia Tuderte   Scrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.

Paola Pellegrini

PAOLA PELLEGRINI

IL NEGOZIO DELLA ZIA SONIA

La zia Sonia per noi nipoti e per i nostri amici e “la Sonia” per tutti i tuderti e non solo, è stata uno dei personaggi che hanno caratterizzato la vita cittadina fino alla fine degli anni ’80.Il negozio della Sonia, prima Simoni, vendeva abbigliamento uomo-donna di indiscusso gusto e qualità ed era situato in Via Mazzini, la principale via d’accesso alla piazza. Nella via c’era (e c’è ancora) il bar di Ciucci, quello di Biganti poi Mazzuoli, il negozio di elettrodomestici di Pantella, la macelleria di Luigi, il fotografo Ursini, il bar di Renzini e all’angolo del vicolo della Corona, mi piace anche ricordare, la rivendita delle bombole del gas di Mario Bianchi. Tutti amici e sempre ben disposti a vivacizzare la via con scambi di battute ed immancabili risate. Si andava dalla Sonia quando si doveva fare il vestito “buono”, quello per le feste comandatele cerimonie e per il Veglionissimo di Carnevale. I giorni che precedevano il Veglionissimo erano per me giovinetta e non ancora in età per parteciparvi, di grande euforia. Vedere sfilare tante signore in magnifici abiti lunghi e scintillanti e uomini in elegantissimi completi da sera era come vivere una favola ed era come esserci là, sui palchetti infiorati del nostro bellissimo teatro. Sì, era così. Il ritmo del negozio era scandito dall’allestimento delle vetrine che cambiava in base alla stagione e alle festività. Mi ricordo dei dopo cena, armate di cesti, fiocchi, fiori finti, nastri e palline colorate, a rivestire ed allestire le pedane dove avrebbero fatto bella mostra vestiti, camicie, pantaloni accomodati con grazia, estro e il gusto del momento. Tanta fatica ma anche tanto divertimento e grande soddisfazione per la zia quando all’indomani riceveva gli immancabili complimenti della clientela e semplice gente di passaggio. E quante coppe vinte per la vetrina più bella, sempre esibite con grande orgoglio! Per la zia Sonia il negozio era la sua vita e il suo scopo principale era soddisfare i suoi clienti; vederli felici per l’acquisto era un atto di stima per la sua professionalità e un riconoscimento per la qualità del prodotto. E che dire quando Nino Manfredi, a Todi per girare il film “Per grazia ricevuta”, entrò nel suo negozio per comprare una camicia e la salutò con un bacio e una foto autografata, da allora tenuta in bella vista appesa al muro. O quando Charlton Heston, magnifico interprete del “Tormento e l’Estasi”, le fece visita per acquistare 10 camicie tutte bianche, come amava ripetere nel racconto…O quando il figlio di un noto americano, residente nelle vicinanze di Todi, si innamorò della gamba di gesso che reclamizzava calze da donna e la volle comprare a tutti i costi nonostante le insistenze della zia, in un buffo italo-americano urlante e rigorosamente declinato con i verbi all’infinito, nel convincerlo che non era in vendita. Molti sono gli aneddoti, i volti, le storie che hanno animato quelle stanze. Ma il negozio della Sonia era anche il “salotto buono” di piazza. Da lei non si andava solo per fare acquisti ma anche per fare due chiacchiere, fumare una sigaretta, sostare tra una “vasca” e l’altra. Era una postazione privilegiata per osservare il “su e giù” tra piazza e giardinetti quando il passeggio era una amena consuetudine e via Mazzini diventava una sorta di “passerella” sotto i riflettori più o meno bonari dei frequentatori del salotto. Ci vediamo dalla Sonia!… era un appuntamento.

Paola Pellegrini

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