Scrìi e aricconda un episodio de vita che se riallacci ta la nostra Città e concernente el rapporto sendimendale che ciài aùto o ciài anco’ co’ lìa. L’argomendo nun è vincolato e pote ariguardà le più svariate sfaccettature (meno che quille pulitica e ministrativa) de la nostra comunità tuderte. I laòri non déono esse pubbricati su la paggina del Gruppo “Sei di Todi se……” ma inviati a: jacopino.tudertino@libero.it. Pubbricherò co’ piacere, sul blogghe de Jacopinodatodi, li vostri scritti. Ah, la penna sirà la mano ma ‘l calamajo dèe da esse el core. Grazzie.
La Rocca
Quand’eravamo potti, d’estate, se eravamo stati boni, ci portavano alla Rocca. Volendo fare un paragone con i tempi odierni, per noi ingenui bambini di fine anni’60 – inizi ’70, era come prometterci di andare a Mirabilandia. Quel “ci” erano la signora Silvia, nonna dei miei amici fraterni Roberto e Cristina (loro fratelli veri) e Maria, mia sorella grande (16 anni di differenza). Andare alla Rocca, al centro di Todi, per noi che abitavamo nel vicolo delle Mattonelle vicino all’ospedale, era un evento da organizzare per tempo perché gli adulti dovevano interrompere la routine dei lavori domestici per accompagnarci essendo escluso che potessimo andarci da soli.
E per strada dovevamo comportarci bene, non correre, obbedire … perché “passavano le macchine” altrimenti “subito a casa”. Questa minaccia ci frenava fino all’arco di Sant’Antonio, poi, progressivamente e proporzionalmente con il crescere della distanza da casa, perdeva efficacia. Già all’arco di Porta Marzia cominciavamo ad essere sordi ai richiami tanto il più (della strada) era ormai fatto. Qui si perdeva un po’ di tempo per scegliere se salire per le scalette a fianco di Porta Marzia, mi pare sia via San fortunato, o proseguire per corso Cavour, tagliando poi per piazza Jacopone. La scelta non aveva in fondo molta importanza perché la meta non cambiava, solo il tempo di arrivo e qualunque fosse il percorso scelto, l’ultimo tratto lo facevamo, comunque, di corsa per arrivare primi ai leoni davanti San Fortunato, per domarli, cavalcarli, iniziando il gioco del “facciamo finta che…”. Quando anche le nostre accompagnatrici arrivavano, lasciavamo a malincuore le belve ormai dome, ma la malinconia durava l’attimo necessario a concretizzare un altro gioco, il “facciamo chi arriva prima a …” e ricominciare a correre verso il piazzale della Rocca.
E qui, via, sempre di corsa, sempre in branco, a fare la fila per i giochi, ad arrampicarci sul muretto del Mastio, saltando a terra dai sassi sconnessi e ricominciando a correre verso la fontanella per bere, poi di nuovo ai giochi inseguiti dai moniti della nonna: “non correte che sudate”, “non correte che vi fate male”, “se vi fate male vi ci faccio la giunta”, “non vi bagnate che siete sudati”…. E li facevamo tutti più e più volte quei giochi: la girandola, l’altalena a due posti, quella a un solo sedile, l’altalena su e giù, lo scivolo; li abbandonavamo giusto il tempo di farci giocare anche gli altri bambini quando le loro mamme protestavano per il monopolio. I giochi più ambiti, però, erano quelli a destra del piazzale, quelli “da grandi”. Era una gran soddisfazione salire tutti e tre sull’altalena che ci appariva gigante, due seduti sui sedili e l’altro in piedi al centro a spingere aiutandosi prima con le mani e poi flettendo le ginocchia sempre più in alto fino a toccare i bulloni, rimbalzando per il contraccolpo verso il cielo, gettando lo sguardo curioso al di là del muro del convento. Verso mezzogiorno la storia si rovesciava: tanto noi avevamo pregato per farci portare alla Rocca, tanto la nonna e mia sorella dovevano minacciare e blandire per riportarci a casa che dovevano preparare il pranzo. Ottenevamo, spesso, di fare percorsi alternativi che prolungavano il piacere di correre senza freni e limiti alla scoperta di tutti i sentieri della Rocca (ma erano ben noti anche se non ne conoscevamo la denominazione), che esploravamo come segugi raccogliendo pigne, bacche e quanto attirava la nostra attenzione per poi lasciarli attratti da altri tesori.
Qualsiasi percorso, però, finiva di nuovo ai leoni, per l’ultimo saluto a quelli davanti San fortunato o per una rinnovata conoscenza con gli altri due presenti dalla parte opposta verso la Serpentina. Il ritorno era punteggiato dalla nostra insistenza e dubbiosa certezza: “però domani ci torniamo, vero? Domani ci torniamo!?”. Ci sono tornata molte volte alla Rocca ad età diverse apprezzandone aspetti diversi; ci ho anche portato mia nipote giocare, ma quando guardo il piazzale, così cambiato, mi capita che mi si velino gli occhi ed allora vedo tre bambini felici che volano verso il cielo a toccare i bulloni, e, forse, i loro sogni, con il Mastio, unico testimone immutato, che bonario lascia fare.
1926
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SOLTANTO RIFLESSI (di Anna Rita Venturi)
Passeggeri specchi
distorcono realtà.
Opaca finzione di chi
tenta di lasciare un segno.
Cubi vuoti d’acciaio
restituiscono fuggevoli attimi
senza conservare
il secolare calore
di pietre accese di luce.
Resterà la Piazza
con i suoi testimoni
a sfidare tempo e memoria.
Anna Rita Venturi
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